COVID-19 E PROVVEDIMENTI EMERGENZIALI IN ITALIA: IL DEBOLE RUOLO DEL PARLAMENTO NELLA GESTIONE DELLA CRISI SANITARIA E LE ALTERNATIVE POSSIBILI

Sara Parolari

Senior Researcher Institute for Comparative Federalism

Jueves, 7 Enero, 2021

È interessante osservare come alcuni termini entrino gradualmente a far parte del lessico quotidiano e diventino nel giro di pochissimo tempo talmente comuni da sembrare essere stati da sempre nel vocabolario quotidiano di chiunque. Nel corso del 2020, in Italia termini fino a quel momento emersi di rado nelle conversazioni di ogni giorno, come pandemia, droplet o mascherine, sono divenuti parte integrante delle conversazioni quotidiane.

Lo stesso vale anche per termini giuridici, utilizzati sinora solo dai tecnici del diritto - si pensi al termine d.P.C.M. che sta per decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri - a cui oggi giorno persino i bambini in età scolare si riferiscono per discutere su quale sarà la loro sorte nei giorni a seguire.

Ciò è chiaramente conseguenza del continuo ricorso all’utilizzo di strumenti normativi per la gestione della pandemia che hanno riflessi sulla vita di tutti e della diffusione data soprattutto dai media alle connesse questioni politiche.

Sin dai suoi esordi, a gennaio del 2020, la gestione dell’emergenza sanitaria in Italia è stata di fatto esclusiva competenza dell’Esecutivo, che ha introdotto misure restrittive delle libertà costituzionali in nome del necessario contenimento della pandemia. Da quando è stato dichiarato lo stato di emergenza ad oggi, sono stati emanati una pluralità di atti normativi e la maggior parte di questi sono stati adottati dal Governo o dalle relative strutture amministrative, come la Protezione Civile, ente che risponde direttamente a Palazzo Chigi.

In altre parole, l’intera emergenza è stata affrontata sotto il profilo giuridico secondo uno schema che vede il Governo emanare successivi decreti legge (ex art. 77 Cost.), poi convertiti dal Parlamento in legge, in cui si rimanda specificamente a successivi d.P.C.M. destinati a dare concreta attuazione alle disposizioni di natura generale dettate dagli stessi decreti legge secondo indicazioni da questi riportate. A tali disposizioni si sono affiancate una serie di ordinanze del Dipartimento della Protezione Civile emanate in forza del relativo potere ad esso attribuito dal Consiglio dei Ministri che consente al soggetto individuato anche di emanare atti in deroga alle normative vigenti, seppur nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico.

Sulla legittimità di tale prassi si è sviluppata, oltre ad un costante intervento dei mezzi di stampa, una copiosa letteratura riconducibile alla dottrina costituzionalistica italiana che ha, tra l’altro, investigato il rapporto tra stato di emergenza e sistema delle fonti, partendo dal presupposto dell’assenza nella Costituzione italiana di una disposizione specifica che offra una copertura costituzionale a casi di emergenza interna come quella verificatasi in questi mesi (la Costituzione italiana prevede solo le disposizioni relative allo stato di guerra all’art. 78 Cost.).

In questo contesto, quel che appare con tutta evidenza è il ruolo particolarmente debole del Parlamento, limitato di fatto all’approvazione delle leggi di conversione dei decreti legge via via presentati dal Governo alle Camere per autorizzare i vari d.P.C.M., peraltro con il grave problema per queste ultime di riuscire a rispettare il termine di 60 giorni per l’approvazione di tali leggi a fronte della mancanza di sistemi di votazione telematica.

Come autorevole dottrina ha sottolineato, questo modus operandi dal punto di vista strettamente formale non va ad incrinare il quadro costituzionale generale. È innanzitutto pacifico che, nel caso di specie, sussistono i presupposti di necessità e urgenza, costituzionalmente previsti per poter ricorrere all’uso del decreto legge. Inoltre, l’uso del d.P.C.M., atto amministrativo formalmente sorretto da un precedente decreto legge, fa sì che la conseguente limitazione dei diritti individuali possa essere riconducibile alla seconda di queste fonti. Ciò in modo tale che risulta il legislatore governativo (con i decreti legge) e poi parlamentare (con le leggi di conversione) a definire la liceità di queste limitazioni, mentre ai d.P.C.M. sarebbe lasciato il mero compito di specificare la misura delle limitazioni stesse. Insomma, non sarebbe il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri a determinare limitazioni delle libertà dei cittadini, ma il decreto legge e la sua legge di conversione.

In ogni modo, secondo un’altra parte della dottrina, sarebbe stato comunque più opportuno che la compressione delle libertà personali avvenisse solo ed unicamente tramite lo strumento del decreto legge, che - seppur anch’esso espressione dell’Esecutivo e pur essendo uno strumento abusato negli ultimi anni laddove lo si è utilizzato ben oltre i casi di straordinarietà per divenire strumento principale di produzione normativa – è se non altro un atto normativo avente forza di legge e, quindi, fonte primaria. Ciò contrariamente al d.P.C.M. (analogo discorso vale per le ordinanze) che è una fonte di rango secondario non sottoposto a conversione ad opera del Parlamento né all’emanazione da parte del Presidente della Repubblica, dunque privo di qualsiasi forma di controllo da parte di un altro organo costituzionale.

Si è continuato tuttavia a procedere con la modalità inizialmente preferita, lasciando ai decreti legge la determinazione dei limiti entro cui il d.P.C.M. può muoversi o, in altri casi, utilizzando il decreto legge solamente per la definizione delle questioni economiche (es. decreto ristori e ristori bis). Unica eccezione il cd. Decreto Natale, misure in effetti adottate con decreto legge, anziché con il consueto d.P.C.M., non è dato capire se nell’ennesimo tentativo di arginare le polemiche o per altri imperscrutabili motivi.

Seppur la soluzione scelta in via preferenziale dal Governo per contenere la pandemia, dunque, dal punto di vista strettamente formale non sembri effettivamente dar luogo ad alcun vizio di legittimità costituzionale, resta indubbio che in tutto ciò non si può non notare la perdita di centralità del Parlamento che resta il grande escluso nella gestione dell’emergenza.

L’ovvia premessa è che la necessità di far fronte all’avanzata della pandemia impone il ricorso a strumenti snelli che possano dare risposte efficaci nel più breve tempo possibile.

È anche vero che se tutte le regole che si sono succedute da gennaio 2020 ad oggi fossero state adottate con decreto legge il Parlamento, già in difficoltà in questi mesi nello svolgimento dell’attività quotidiana, avrebbe vissuto di fatto un intasamento e difficilmente sarebbe stato in grado di convertire in legge i decreti nel rispetto dei tempi.

Dall’inizio della pandemia ad oggi qualcosa si è fatto se non altro nel tentativo di limitare le polemiche politiche relative allo svuotamento di potere delle Camere a favore del Presidente del Consiglio.

In particolare, il decreto legge 25 marzo 2020 n. 19 articolo 2, comma 1, così come modificato dalla legge di conversione 35/2020, ha previsto che il Governo debba presentare un’informativa alle Camere sulle misure che intende adottare tramite d.P.C.M. (il Presidente del Consiglio o un Ministro da lui delegato illustra preventivamente alle Camere la sua linea di attuazione del dettato legislativo al fine di tener conto degli eventuali indirizzi dalle stesse formulate).

Nonostante questa “parlamentarizzazione” dei d.P.C.M. rappresenti un passo in avanti, è indubbio che permangono diversi aspetti critici. Tra questi, la circostanza che, molto spesso, le informative introdotte dal decreto legge 19/2020 siano state presentate dall’Esecutivo poco prima della pubblicazione del d.P.C.M. in Gazzetta Ufficiale o addirittura, vista l’urgenza, dopo che l’atto era già stato adottato, così vanificando di fatto ogni possibile azione parlamentare.

Insomma, seppur la necessità e l’urgenza legittimino un intervento governativo massiccio, è del tutto legittimo domandarsi fino a che punto può arrivare la compressione delle libertà individuali senza un coinvolgimento attivo dell’organo rappresentativo.

Dove sta il limite, il discrimine, fino a che punto l’Esecutivo può – seppur sulla base di una legittimazione democratica – mettere da parte il Parlamento e fare da solo?

Non del tutto risolutiva risulta a tal proposito la soluzione che vedrebbe maggiori garanzie nell’uso esclusivo del decreto legge, strumento anch’esso ambiguo e la cui continua successione nel tempo potrebbe creare incertezza nel diritto.

Certamente trovare soluzioni alternative in questo contesto non è facile, ma c’è forse un primo aspetto su cui si potrebbe lavorare da subito, ovvero prevedere una motivazione dettagliata per i decreti governativi. Forse non risolverebbe del tutto il problema della esclusione del Parlamento, ma quantomeno introdurrebbe nel sistema un elemento di trasparenza nel rispetto dei principi di adeguatezza, proporzionalità e gradualità delle misure che i cittadini non potrebbero che apprezzare nella situazione normativamente caotica in cui si trovano spesso a muoversi.

Inoltre, una positivizzazione della legislazione in tema di emergenza in cui si indichi chiaramente chi ha il potere di fare che cosa sarebbe altrettanto utile.

In definitiva, il sistema delle fonti adottato per gestire la pandemia in Italia per quanto compatibile con l’ordinamento costituzionale in essere, si fonda senz’altro sull’accentramento del potere nelle mani del Governo ponendo seri problemi con riferimento al rapporto tra le istituzioni della Repubblica e sulla democraticità dell’intero processo.

Cortes de Aragon

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